COSTRUIRE IL VOLTO DEL PERSONAGGIO: ai confini della fisiognomica

COSTRUIRE IL VOLTO DEL PERSONAGGIO: ai confini della fisiognomica

2# LEZIONE di “Costruire il volto del personaggio”
Ai confini della fisiognomica.

Citiamo Wikipedia :
“La fisiognomica o fisiognomonica è una disciplina pseudoscientifica che attraverso la fisiognomia o fisiognomonia pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto”.
Riportiamo tale fonte non tanto perché crediamo nella fisiognomica (l’apparenza inganna, si dice), quanto perché l’esistenza di tale “disciplina pseudoscientifica” denota due cose fondamentali: l’insondabilità dell’animo umano ed il tentativo fatto nei secoli da ogni uomo sulla terra per comprendere se stesso e gli altri intorno a lui.
In letteratura in particolare (ed anche al cinema o al teatro quando gli attori con il loro aspetto fisico caratterizzano pienamente un personaggio), attraverso la descrizione di un volto si vuole (e si usa) dare risalto al carattere dei propri personaggi, quasi che tratti particolari del loro aspetto fisico rivelino aspirazioni, segreti e prerogative.
In parte questa è una verità, difatti non c’è emozione che non si manifesti sul volto. Di recente un famoso studioso di comunicazione non verbale, Paul Ekman, ha reso noto il funzionamento di micro-espressioni facciali che appaiono sul volto per una frazione di secondo, rivelando l’emozione che si prova nell’istante in cui “appare”. Ciò a significare che nonostante i tentativi di dissimulazione, ciò che sentiamo internamente si manifesta nella nostra espressione.
Chiaramente qui parliamo di emozioni, il che è completamente diverso dal dare credito a teorie lombrosiane ma siccome ci stiamo occupando di tecniche di narrazione e siccome una delle prerogative della scrittura è quella di “rendere visibile l’invisibile”, non possiamo negare come scrittori illustri e talentuosi abbiano “materializzato” personaggi in modo impeccabile, dando vita in poche righe ai loro mondi sconfinati e contraddittori, solamente grazie all’uso sapiente delle parole nel descrivere un volto.
Vi riportiamo un esempio, la descrizione di Gertrude, la monaca di Monza de “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni:

Il suo aspetto, che poteva dimostrare 25 anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non di inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento, in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo di un saio nero. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea di un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce; quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio di un pensiero nascosto, di una preoccupazione famigliare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato e di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva su una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento“.

I tratti fisici della monaca, i suoi gesti, le sue espressioni, divengono lo specchio dell’anima di questa donna realmente esistita (Marianna de Leyva) e divenuta personaggio indimenticabile nel romanzo. Intuiamo molto di lei, ne siamo vagamente attratti e respinti allo stesso tempo, ancor prima di conoscere la sua storia o di vederla all’opera. Questo proprio grazie all’accurata precisione della descrizione fisica che si concentra sui dettagli, sui gesti; e grazie anche alla scelta di verbi, avversative, enunciati dubitativi, di cui Manzoni si è servito per dare corpo alla figura. Tutto, in questo caso, concorre a fornire un quadro preciso di Gertrude, in modo ricco, sublime pieno di pathos, in grado di stimolare il lettore a farsi un’idea, chiamandolo in causa per diventare protagonista della vicenda.

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