Si dice spesso che la vita è un viaggio la cui destinazione si raggiunge camminando, correndo, compiendo gesti e azioni fino allo scoprire, a un certo punto, di essere giunti ad un capolinea, ad una tappa fondamentale dove ci si trova cresciuti, cambiati. A volte si arriva lì insieme ad altri, per caso, altre volte perché non può essere altrimenti. Così come accade ad Eco e Narciso che, in questa profonda e toccante riscrittura teatrale, rappresentano due facce d’una stessa medaglia: da un lato il narcisismo che porta con sé l’egoismo e la visione dell’altro come strumento personale, dall’altro la totale dipendenza affettiva e il vivere esclusivamente in funzione altrui. Si direbbe che la vittima senza il carnefice non possa esistere e viceversa, ma senza una piena consapevolezza tutti i personaggi diventano sia vittime che carnefici e i discorsi su colpa, colpevole, giudice e giudicato diventano più o meno inutili.
La rivisitazione del mito di Eco e Narciso nel nuovo testo dell’attore e regista Filippo Gessi, intitolato Eco e Iso, prodotto da Scena Nuda e presentato all’interno della rassegna Yard Cantiere Creativo, è stata compiuta magistralmente in una chiave attuale e fortemente provocatoria, che mette in scena le esasperazioni emotive e relazionali dei giorni nostri, di un’umanità che vive come persa dentro un labirinto.
Due sono le coppie che vengono rappresentate nella prima lettura scenica che ha offerto al pubblico presente forti emozioni: i due fidanzati Eco (Jessica Granato) e Narciso (Tino Calabrò); i genitori di lui, Naro (Alessio Bonaffini ) e Nara (Margherita Smedile), i quali appaiono entrambi chiusi nel proprio punto di vista, in una convivenza matrimoniale a dir poco precaria.
Tutti sono diretti a Farso, un luogo che appare irraggiungibile e fantomatico, per motivi non resi espliciti ma che lasciano intendere agli spettatori che possa essere la meta finale, inseguita ossessivamente, in quanto simbolo di un paradiso perduto a cui aspirano i protagonisti.
Come in un incubo da cui non ci si riesce a svegliare, la strada percorsa sembra riportare sempre allo stesso punto, in un eterno ritorno di dinamiche che non lasciano molto spazio alla speranza.
Nel tragico viaggio a cui assistiamo, come dal finestrino di un trenino giocattolo che gira sempre sulla stessa pista, le visioni riportate ai nostri occhi e alle nostre orecchie rivelano la fragilità di sentimenti intrisi di cinismo, espressi in modo romantico, morboso ed arrogante attraverso silenzi, dialoghi brevi e taglienti, dolci, scioccanti ma anche ironici che contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa, carica di fatali possibilità. Tutto questo accompagnato dalle musiche e dai suoni di Simone Squillace, fuse in modo perfetto con l’impianto drammaturgico e con l’ottima interpretazione di tutti gli attori coinvolti.
Alla fine del viaggio, che continua sospeso nei pensieri del pubblico, restano sentimenti contrastanti e possibilità catartiche di superare il dolore e l’assurdo attraverso le riflessioni suscitate dall’opera che ci ricorda, inoltre, il valore fondamentale del mito, del suo parlare diretto al nostro inconscio e alla nostra memoria per metterci di fronte a ciò che temiamo, in modo da giungere a capire cosa davvero vogliamo quando saremo finalmente pronti a conoscerci e ad aprirci all’altro senza censure.
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