Entriamo in un antico castello… le luci sono soffuse e le sale sono piene di gente, in sottofondo un vociare continuo, dame e cavalieri che parlano.
In un angolo, dietro un tavolo pieno di libri su cui spicca una grande spada argentata, notiamo un giovane cavaliere vestito di verde dai capelli lunghi e neri che ne incorniciano il volto affilato. Gli occhi vispi, dal colore indefinito, ricambiano il nostro sguardo. Ci invita a fermarci e ad aprire una delle pagine del suo libro…
Si intitola Àntica (con l’accento sulla prima “a”) ed è il primo di una trilogia che si concluderà prossimamente: si tratta di uno spiritual fantasy, ci rivela il cavaliere che ne ha coniato il genere ed il cui nome è Agostino Massimo Mano, trentenne lametino.
«È come se il fantasy avesse perso la strada da cui aveva iniziato», ci spiega «scrivendo Àntica ho riscoperto il fantasy che trae le sue origini dal Medioevo, ricco di valori, impregnato di forti simbolismi, come questa spada luminosa che vedete sul tavolo… il suo nome è Hailey». Sollevandola senza sforzo la mette nelle nostre mani. «Ha un occhio nell’elsa» ci fa notare, «questo significa che ha una volontà: è lei a decidere quando essere usata e da chi».
Haley è anche presente sulla copertina del romanzo (realizzata da Antonio Cittadino) ed è protesa verso il cielo su di uno sfondo rosso acceso e sfavillante.
Gli chiediamo di dirci qualcosa in più sullo spiritual fantasy.
«Il viaggio che si fa in questo genere è soprattutto interiore, i personaggi sono creati per dare a tutti un’opportunità di esplorarsi. Nel mio romanzo si intrecciano più punti di vista che fanno andare avanti la storia. I personaggi sono gli strumenti usati dallo scrittore per dare insegnamenti, trasmettere qualcosa, dare speranza.
I fantasy di oggi invece fanno vedere quanto l’uomo può essere crudele, fin dove può spingersi per arrivare al male».
Ci racconta di essersi appassionato alla scrittura fin da bambino confessandoci che i libri che più lo hanno ispirato sono stati Alice nello specchio
di Lewis Carroll, La storia infinita di Micheal Ende, Il Signore degli anelli di John R. R. Tolkien e Moby Dick di Herman Melville.
In quel momento si avvicina un cavaliere vestito di blu con un camaglio in testa. Ha lo sguardo profondo e serio e la barba corta brizzolata. Scopriamo essere Klaus Costa, proveniente da Catanzaro, delegato della Legione Gladius che si occupa di Rievocazione e Scherma Storica.
Una duello tra i due sta per avvenire appena fuori dalle mura del Castello Aragonese di Reggio Calabria. Haley, la spada con l’occhio nell’elsa, è chiamata a rispondere alla sfida…
Ecco il video che testimonia quanto accaduto: il fantastico duello di spade tra Agostino e Klaus!
Mentre Klaus Costa fa ritorno al castello approfittiamo dell’occasione per chiedergli cosa significa per lui essere presente in questa città e in questo luogo in particolare.
«Questo tipo di eventi a tema medioevale sono un arricchimento intellettuale per l’umanità perché costituiscono un ritorno al passato, un passato che magari ha delle valenze ancora oggi, nonostante i valori di una volta si siano un pochino persi».
Scopriamo che Klaus, insieme ad Agostino, è un membro della Scuola d’Arme, insieme hanno appreso i combattimenti medioevali secondo i trattati canonici in cui sono riportate regole antiche ben precise per poter dare i colpi, pararli ed attaccare.
Klaus ci ricorda che il famoso storico italiano Franco Cardini, nella presentazione di un trattato medievale sui combattimenti, evidenziò l’importanza della rievocazione storica «un’etica antica, un’etica medievale che nei tempi di oggi forse si è persa».
Sul perché il Medioevo stia tornando ad affascinare il nostro tempo, Klaus esprime il suo pensiero:
«Questo è un mistero incredibile, io stesso mi sono posto il problema tante volte perché lo vivo e vedo gente interessata al medioevo forse perché è l’epoca più affascinante e più colta, o forse perché intravediamo inconsciamente nel Medioevo un qualcosa che non c’è più… senza speranze per il futuro la nostra unica soluzione è tornare al passato… ma del resto senza passato non c’è presente».
Salutiamo entrambi con la fatidica richiesta che amiamo fare ai nostri amici intervistati: una parola, o più di una, che desiderano “evidenziare”.
Per Agostino sono due:
«Serenità perché devi riuscire ad essere sereno in mezzo ai vortici della vita… c’è sempre qualcosa che non va come vuoi e spesso uno si dà per vinto, si dispera, anche per scemenze. La serenità è importante perché ti fa mantenere una certa integrità anche con te stesso, e se sei sereno di fronte alle difficoltà, e anche con te stesso soprattutto, vuol dire che hai raggiunto un certo grado di maturità.
E Fiducia perché devi avere fiducia in te stesso anche quando le cose sembrano andare per il verso sbagliato ma è quella che ti fa andare avanti, la fiducia, non c’è nessun altro che te la può dare, sei solo tu che la puoi “carburare”».
Per Klaus invece è una in particolare:
«Gladio, una parola pericolosa… infatti ho dato il nome Gladius alla mia legione appunto per evidenziare l’utilizzo della spada nel periodo romano fino al 1300 quando poi queste andarono in soffitta con l’arrivo della polvere da sparo e le armi da fuoco e poi le cose cambiarono…».
Nel salutare i due cavalieri, pronti a lasciare il castello, veniamo attratti da voci e risate in fondo alla stanza… sono un gruppo di giovani dame e cavalieri. Si presentano come i “I cavalieri di Enotria”, un’Associazione Ludico Culturale di Reggio Calabria che realizza eventi interattivi come cene con delitto e cineforum e in particolare organizza incontri di gioco presso la loro sede in via Borrace Crocevia n°10F il giovedì e la domenica dalle 19:30 fino a mezzanotte. Con i loro giochi a tema fantasy soprattutto ed il loro senso della compagnia, rifocillano gli animi dei cavalieri di ritorno dalle battaglie e accolgono i viaggiatori erranti per la città: ovviamente nel loro covo c’è spazio per tutti, chiunque voglia divertirsi può trovare posto nella comitiva!
Affascinati da tutti questi incontri avvenuti in occasione de “Il vento dei sette regni” (evento tributo a Cronache del ghiaccio e del fuoco, il ciclo di libri fantasy scritti da George R.R. Martin ed organizzato dall’Associazione Culturale Level Up e dalla Cooperativa Sociale Turismo per Tutti, tenutosi dal 4 al 6 gennaio 2018 presso il Castello Aragonese di Reggio Calabria), varchiamo le mura del castello per ritornare nel XXI secolo. Fuori soffia un vento lieve ma noi non lo vediamo, come il tempo attraversa lo spazio e va al di là di ciò che immaginiamo.
PS: Non poteva mancare uno scatto al trono di spade su cui siede Daenerys Targaryen!
(Mariagrazia Bolignano – Cosplayer di Reggio Calabria)
Elio Crifò è autore, regista e attore che lavora anche per il cinema e la tv con molte esperienze professionali all’attivo.
Abbiamo avuto il piacere di fargli un po’ di domande sul suo essere attore, scrittore e su alcuni dei suoi più recenti spettacoli.
Con lo spettacolo EsotericArte, attualmente in tour, Elio ci accompagna all’interno di un viaggio affascinante nel mondo dell’arte e lo fa con la mente di un archeologo, la curiosità di un bambino e lo sguardo ironico e astuto di chi aspira a riconoscere e cogliere quell’attimo di eternità che ci rende il senso delle cose e che affonda le sue radici nella parte più vera del nostro io, quella invisibile agli occhi ma presente, tangibile e avvolta nel mistero, che ci accomuna tutti.
Parlando della sua esperienza drammaturgica e di EsotericArte, il suo lavoro teatrale più recente portato in scena con Vittorio Sgarbi, ecco che cosa Elio Crifò ci ha raccontato:
Ho sempre avuto la voglia di scrivere dei testi coinvolgenti usando una scrittura non ordinaria con cui affrontare temi particolari, definiti, colti, però in modo divertente, ironico, pulp, avvincente, in modo che lo spettatore sia veramente coinvolto. EsotericArte è un viaggio nell’arte del Medioevo, un’esplorazione vera e propria, uno spettacolo fuori da ogni dimensione che si addentra nell’emozione e nel mistero dei simboli. La lectio magistralis è di Vittorio Sgarbi, anche lui interprete sul palcoscenico, che illustra la visione essoterica, mentre io svelo invece la lettura opposta.
Cosa significa per te essere un attore e uno scrittore? Sicuramente c’è un lavoro in più visto che si tratta non solo di scrivere ma anche di interpretare ciò che scrivi.
Penso che sia una cosa simile al cantautore. A un certo punto diventa più semplice esprimerti in questo modo, scrivo spettacoli per esprimere me stesso, per cercare di capire il mondo attraverso l’esplorazione dei temi. La scrittura ormai è una delle cose quasi indispensabili: è quello che contiene il contenuto del motivo per cui vai in scena.
Quindi, quando scrivo uno spettacolo per metterlo in scena, sono due cose che ormai lavorano insieme e così viene inevitabilmente un prodotto più forte rispetto a quando ho partecipato a qualunque altro spettacolo con un testo già dato (che possa essere Pirandello, Shakespeare, Sciascia o quant’altro autore) perché c’è una connessione profonda dalla genesi fino alla nascita davanti al pubblico, dalla gestazione fino al parto.
Con il pubblico qual è il tuo rapporto?
I temi che affronto in questo spettacolo vengono posti difficilmente nella quotidianità per cui molti appassionati di esoterismo si avvicinano con l’ansia, l’arsura, di trovare qualcosa di vero nel mondo della cultura che possa affrontare in modo non oscuro i temi chiamati “oscuri” che sono quelli dell’esoterismo. Si affrontano in un modo lineare, semplice, chiaro, ma nello stesso tempo misterioso, creando un linguaggio per tutti, per questo EsotericArte non è solo uno spettacolo colto ma è uno spettacolo per tutti.
Com’è stato lavorare con Vittorio Sgarbi?
Inizialmente mi ha detto “Tu sei un pazzo che vieni da me: uno perché l’esoterismo a me non interessa, due il titolo mi fa cagare, tre io sono un produttore”, allora gli ho risposto “Vittorio, guarda questo, intanto te lo leggi ma te lo spiego io”. Gli ho spiegato più o meno tutto quello che c’è e allora ha detto va bene, ma non pensava ci fosse uno bravo. Quando poi l’ha visto a Soverato – dove abbiamo debuttato – ha detto “ah, adesso noi possiamo lavorare insieme”. Il produttore di EsotericArte è calabrese, si chiama Stefano Baldrini.
In EsotericArte si affronta il discorso legato all’esoterismo nella musica, infatti hai parlato dei Deep Purple, Genesis, Dream theater, Bach, Beethoven. Ma qual è il tuo pensiero sulla fruizione dell’arte oggi?
Quando guardo un’opera d’arte guardo me stesso, se la capisco e ci riesco a interagire. Un’opera d’arte può essere una sonata di Bach, il duomo di Firenze, può essere un ballo di una ballerina classica.
Rispetto allo spettacolo “La classe digerente” di cui sei autore ed interprete, quali sono state le differenze nella scrittura e nell’impatto con il pubblico?
La classe digerente è nato come un format di satira politica durissimo dove sì, si rideva, ma parlando di temi estremi come la trattativa stato-mafia, come lo scandalo degli scarichi nel campano, oppure parlando della Sardegna, di Franco Caddeo, delle armi nucleari che hanno avvelenato per generazioni i sardi. Temi duri, accusatori, facendo nomi e cognomi, attraverso una scrittura divertente, ironica ma che, quando c’è da dare, accusa al massimo senza nascondersi dietro perbenismi borghesi.
Hai collaborato con delle scuole per portare agli studenti l’arte facendo anche comprendere la necessità o la volontà di non annoiare, ma forse non siamo ancora educati a guardarla da questo punto di vista?
C’è poca gente educata a fare determinate cose e quindi l’80% di quello che c’è in circolazione sono cose non vere, cose brutte. Quanto vai in Cappella Sistina tutti capiscono che è una grande opera d’arte, non c’è nessuno che dice “che palle sta cosa” ma quando vai a vedere i sacchi di Kounellis il 90% delle persone se non viene informato che sono dei sacchi fatti da Jannis Kounellis non capiscono che è un’opera d’arte e infatti, forse, non lo è. Allora uno pensa che l’arte siano quei sacchi di Kounellis oppure altre cose, mentre l’arte è qualcosa che riguarda te stesso ma se la fai fare a chi non è in grado di farla tu ti allontani e infatti il popolo italiano è lontano dalla cultura.
Potresti parlarci del simbolo che ti ha colpito di più mentre svolgevi le ricerche per scrivere il tuo lavoro, di cosa che ti ha incuriosito in maniera particolare, che non ti aspettavi e che vuoi condividere con noi?
Quando ho cominciato a studiare i simboli e ad arrivarci attraverso l’arte e attraverso riproduzioni di artisti e dalle loro biografie, mi si è rivelato un mondo che è fatto di tanti studi, di tante teorie, di tante religioni, tante conoscenze, dall’alchimia alla massoneria, alla religione ebraica.
Tutto ciò che affronti all’interno dell’esoterismo è un discorso spirituale profondamente più elevato rispetto a quella spiritualità da supermarket da discount al quale siamo stati formati dalle organizzazioni cattoliche, le nostre parrocchie, da chi ci ha battezzato, da chi ci ha cresimato. È vissuta in modo talmente inutile e noioso la religione cattolica che molti si allontanano perché la trovano inutile, mentre ancora c’è una parte del mondo esoterico che crea delle domande e dà delle risposte molto profonde molto interessanti e soprattutto non cerca di convertire nessuno.
L’esoterismo mi ha donato delle cose belle, un bel percorso che sto unendo alle arti marziali che ho scoperto sono molto collegate ai simboli esoterici.
Oggi parlare di filosofia, di sociologia, di arte, di emozioni, di provocazioni cognitivo filosofiche, è quasi unico. Tutti “se fa a commedia, bisogna ride, er cabaret…” e vai avanti perché quello c’è e il pubblico vuole e invece non è vero. EsotericArte dimostra che il pubblico non vuole solo quello vuole anche parlare di queste cose.
Ultima domanda di rito: la parola a cui sei più affezionato.
Io sono legato alle parole dialettali siciliane nelle quali ho vissuto la mia giovinezza ed è una delle cose più emozionanti per cui “minnicu” è una parola a cui sono legato. In una parte della Sicilia non è altro che una sorta di scroccone di emozioni, di sentimenti, uno scroccone di cene ma è anche un godereccio della vita eccetera, eccetera!
Tra le cose che ci fanno paura, ce n’è una irrimediabilmente insopportabile: che il male sia invincibile. Paradossalmente, tale convinzione è alimentata dalla dicotomia stessa che separa il male dal bene, e che assolve le “persone buone”dalla responsabilità delle loro azioni, lasciandole dormienti, nella convinzione di non avere nulla a che fare con ciò che di cattivo li circonda.
Eppure la linea di confine che separa bene e male è accessibile ad ognuno di noi, ed anche il silenzio, spesso, e la “non-azione” hanno il loro peso nello svolgimento degli eventi.
Bene, ci sta questo gruppetto di ragazzi, la Compagnia SMG, che piano piano ha iniziato a girare l’Italia con Fortuna, uno spettacolo teatrale che pone a ciascuno di noi un interrogativo fondamentale, mettendoci di fronte alla realtà più intima del nostro io con una semplicità disarmante: raccontandoci la storia di un ragazzo che per motivi di lavoro si trasferisce a Caivano, in provincia di Napoli.
Abbiamo avuto il piacere di poter fare qualche domanda al frontman della compagnia, l’attore e drammaturgo Alessandro Sesti (N.B. il primo a sinistra nella foto!), che ha scritto e interpretato Fortuna, per la regia di Erica Morici, affiancato dal cantautore Nicola Puscibaua, con la consulenza musicale di Andrea Giansiracusa.
Ciao Alessandro, grazie per la tua disponibilità.
Senza voler svelare troppo di Fortuna, vorremmo chiederti come è nata l’idea e cosa vi ha portato alla decisione di costruire lo spettacolo partendo da un fatto di cronaca, ovvero l’omicidio di Fortuna Loffredo, avvenuto nel 2014 a Caivano.
Ciao ragazzi, grazie a voi per la domanda.
La cosa è stata all’inizio casuale… è stata mia madre, infatti, a risvegliare in me l’interesse verso questa storia. Mentre raccontava di questa bambina precipitata nel vuoto, nel Parco Verde di Caivano, ho avuto la sensazione che qualcosa non tornasse ed ho capito che non si stava parlando solo di un omicidio.
Ho iniziato ad indagare, facendo delle ricerche prima in rete, poi parlando con alcune persone nate e cresciute ad Aversa (città a 7 km da Caivano), che mi hanno raccontato molte cose, sia della zona che di Caivano. È così che sono venuto a conoscenza di un altro fatto di cronaca nera: nel 2013 anche Antonio Giglio, un bimbo di tre anni, era precipitato dal terzo piano della palazzina nel Parco Verde di Caivano…
Quello che ho scoperto nelle prime fasi di ricerca è che tutti, a Caivano, sapevano che c’era una stanza, “la stanza dei bambini”, dove i bambini del quartiere venivano portati quotidianamente e violentati ma anche se sapevano, tutti rimanevano in silenzio.
Ecco, per me l’analogia è stata immediata quando ho scoperto queste cose, perché questo è chiaramente un caso estremo di violenza ma anche e soprattutto un caso estremo d’omertà. È così che è nata l’idea di scrivere lo spettacolo.
Noi della Compagnia SMG abbiamo preso questo episodio di cronaca nera per poter parlare a tutti, abbiamo portato in scena la “storia particolare” per poter parlare della “storia generale”, e dire che alle cose tristemente estreme ci si arriva a causa della somma di cose apparentemente più piccole ed insignificanti, come il silenzio, o meglio, l’omertà.
Quanti eventi tragici accadono a causa della nostra mentalità mediocre che si è assuefatta ad un certo tipo di struttura mentale: ad esempio, posso essere talmente tanto abituato a vedere uno che sta infrangendo la legge, anche in maniera lieve, magari sta buttanto una carta a terra, oppure sta rigando una macchina, oppure ancora ha urtato una macchina e tira via senza chiedere di chi è il proprietario… e appunto, dicevo, posso essere talmente tanto abituato che poi, quando lo vedo, sto zitto!
Ecco, noi stiamo zitti, e non è che il silenzio sia meno grave dall’aver compiuto il danno.
Perché questo qui, purtroppo, è insito nel nostro stesso essere ed è così che roviniamo l’Italia. Questa in fondo è l’analogia con l’omertà quotidiana che permette poi a questi abomini di realizzarsi, perché se uno non ce l’avesse come struttura mentale neanche l’episodio di cronaca accadrebbe mai. Se io immagino, ad esempio, che possa esserci qualcosa di strano in una “stanza dei bambini” nell’appartamento di un condominio, dovrei andare a denunciare, anche solo per togliermi il dubbio ma invece accade che c’è proprio nella nostra struttura mentale uno sconvolgimento dei fatti e finisce che tu hai da rischiare se parli, perché se denunci agisci da spia!
Molto interessante tutta la scelta drammaturgica, dal teatro di narrazione all’intero allestimento, compresa la vostra capacità di trattare con delicatezza questo tema senza mai perdere la tensione scenica.
Parlare di cose drammatiche in maniera drammatica è controproducente, sarebbe come un sottolineare una cosa che è già in evidenza, che è già chiaro, che comunque va a toccare delle corde in ognuno di noi, ma non serve ad aggiungere altro. Anche per questo è stata fatta la scelta del teatro di narrazione anziché una messa in scena solo per riportare un fatto di cronaca.
La scelta di utilizzare dei fatti di cronaca come spunto per raccontare qualcosa piuttosto che inventare da zero è un approccio che applichi generalmente o è stato un caso? E cosa significa per te fare teatro?
Personalmente come drammaturgo della compagnia ho questa tendenza ad ascoltare storie e ad utilizzarle per costruire una drammaturgia. Anche in Briciole (spettacolo teatrale scritto e diretto da Alessandro Sesti ed ispirato alla vicenda del “mostro di Cleveland”, Ariel Castro, che aveva rapito e segregato in casa per undici anni tre donne) abbiamo lavorato con una drammaturgia che amo definire “attiva”, ho chiesto agli attori di raccontarmi la loro giornata tipo ed insieme abbiamo fatto un grandissimo lavoro di immaginazione. Il mio è un lavoro di ascolto ed anche in Fortuna sono tutte quante storie vere, non c’è proprio nulla di inventato, poi le ho imbastite, introducendo un protagonista che si trova a dover fare i conti con una realtà disarmante, a cui non era abituato ma che immediatamente lo risucchia in un vortice di inquietudine paralizzante.
Per me non c’è nulla di più forte della verità e per me il teatro è ricerca, quello che mi interessa è raccontare qualcosa a cui normalmente non si dedica tempo durante le giornate. Per me il teatro diventa quasi un veicolo per poter portare dei messaggi: è portare le persone a farsi domande.
Ci tengo a raccontare una storia che deve muovere un minimo la coscienza, perché viviamo in un periodo, in un’epoca, che è senza più ideali e le generazioni più giovani crescono senza valori. Dobbiamo pensarci noi, allora, i più grandi, a mantenerli vivi questi valori.
Con il nostro spettacolo vorrei fare memoria di Fortuna ed Antonio perché certe cose non devono accadere più, proprio come l’Olocausto, né più e né meno, e se noi smettiamo di ricordarla questa cosa, se noi smettiamo di ricordare quei bambini che sono stati ammazzati due volte, allora non ci meravigliamo che poi qualcun altro sbaglierà ancora.
Una curiosità legata al titolo dello spettacolo, Fortuna: doppio senso che però sembra assurdo. Non si tratta di un evento fortunato quello che racconti, ma in qualche modo il fatto che sia venuto alla luce è una “fortuna”. Che significato ha avuto per te la scelta di questo titolo? E cosa pensi in generale dei titoli?
Penso che il titolo sia importantissimo. Fortuna all’inizio aveva un sottotitolo: “la legge del silenzio” che è la definizione Treccani della parola omertà…ma di quello ne parla già molto lo spettacolo, così ho lasciato solo Fortuna. La fortuna non è necessariamente buona, nell’antica Grecia la dea della fortuna non era solo benevola.
E la piccola Fortuna ha avuto la cattiva sorte di essere uccisa e violentata per anni ma è come se fosse diventata una martire per me e non credo sia un caso se questa storia mi sia venuta a bussare alla porta. Non vi nascondo che durante gli spettacoli ho avuto l’impressione che lei fosse davvero lì con me.
Che legame ha questo testo con i testi delle canzoni e con la scelta di questo tipo di musiche, scritte da Nicola Puscibaua?
Nicola Puscibaua, cantautore, all’anagrafe Nicola Papapietro, sì, ha anche un nome vero… la prima volta che l’ho incontrato suonava la chitarra senza una corda… “Ma tu suoni sempre così, senza una corda?”gli chiesi, e lui poco dopo iniziò a suonare una canzone da lui scritta che si chiamava I Re Magi, io là mi innamorai del suo modo di scrivere e di cantare ed eccoci qui! Nicola rappresenta la musica vera nell’epoca degli X Factor, lui parte dalla parola, dal bisogno di raccontare.
Adesso siamo curiosi, Compagnia Teatrale SMG (Sesti Morici Giansiracusa), parlaci un po’ di voi!
Aspettavo questa domanda! Beh, siamo in quattro.
Erica Morici alla regia, ha fatto una scelta registica importantissima, è riuscita a rendere protagonista solo ed esclusivamente la storia e non era facile. È riuscita a contenere la scena e a mettere in prima linea solo le parole, ritengo abbia fatto un grandissimo lavoro di regia.
Il quarto elemento ha dato anche il nome alla Compagnia, SMG infatti sta a significare “Scusate ma Giansi?” (che in realtà sono pure le iniziali dei nostri cognomi, Sesti, Morici e Giansiracusa) ovvero Andrea Giansiracusa, appunto, e che a Torino non c’era! (la Compagnia SMG è stata selezionata al Fringe Festival di Torino, dove si è esibita quest’anno a maggio).
Il suo lavoro è stato fondamentale, in quanto ha curato tutta la parte armonica dello spettacolo. Ha utilizzato la mia parola e le canzoni di Nicola, le ha messe come su un pentagramma ed ha dato una ritmica a tutto lo spettacolo. Infatti la musica è molto presente.
Ecco, questa è la squadra, e ci tengo a raccontare che lo “Scusate ma Giansi?” è nato durante le prove! In quel periodo stavamo lavorando a Briciole, il nostro primo spettacolo, io ed Erica arrivavamo in sala e Andrea non c’era mai, ma proprio mai! Arrivava sempre con mezz’ora minimo di ritardo e la domanda di sempre era “Sì, ma Giansi?!” e da lì è nato questo tormentone, che poi è diventato il nostro nome!
Avremmo un’ultima domanda da farti, legata proprio alla nostra identità di Evidenziatori! È una domanda apparentemente semplice ma è necessario che la risposta sia immediata! Qual è la tua parola preferita?!
La mia preferita è “parapiglia” e mi piace tantissimo prima di tutto per il suono, ha molti suoni diretti, tondi, pungenti! Ho scritto una raccolta di poesie che ancora non ho avuto il coraggio di tirare fuori che si intitola proprio “Parapiglia”, sottotitolo “è solo la mia parola preferita”… c’è quella cosa lì che ha questa parola che mi affascina tantissimo, perché sembra sia usata solo nei cartoni animati! Adesso dici scoppia un caos, un festino, un bordello, invece parapiglia rende proprio l’idea di qualcosa che sta in movimento, mi piace molto perché evoca un caos positivo, il parapiglia non è sinonimo di pericolo o di fuga, ma di un caos positivo, ecco, a me piace riassumerla così!
Grazie Alessandro per il tuo tempo, e grazie a tutti voi della Compagnia SMG per averci donato così tanto.
Sappiamo che state girando l’Italia con Fortuna, portandolo anche nelle scuole. Speriamo presto di trovarvi con questo spettacolo anche a Reggio Calabria!
Si dice spesso che la vita è un viaggio la cui destinazione si raggiunge camminando, correndo, compiendo gesti e azioni fino allo scoprire, a un certo punto, di essere giunti ad un capolinea, ad una tappa fondamentale dove ci si trova cresciuti, cambiati. A volte si arriva lì insieme ad altri, per caso, altre volte perché non può essere altrimenti. Così come accade ad Eco e Narciso che, in questa profonda e toccante riscrittura teatrale, rappresentano due facce d’una stessa medaglia: da un lato il narcisismo che porta con sé l’egoismo e la visione dell’altro come strumento personale, dall’altro la totale dipendenza affettiva e il vivere esclusivamente in funzione altrui. Si direbbe che la vittima senza il carnefice non possa esistere e viceversa, ma senza una piena consapevolezza tutti i personaggi diventano sia vittime che carnefici e i discorsi su colpa, colpevole, giudice e giudicato diventano più o meno inutili.
La rivisitazione del mito di Eco e Narciso nel nuovo testo dell’attore e regista Filippo Gessi, intitolato Eco e Iso, prodotto da Scena Nuda e presentato all’interno della rassegna Yard Cantiere Creativo, è stata compiuta magistralmente in una chiave attuale e fortemente provocatoria, che mette in scena le esasperazioni emotive e relazionali dei giorni nostri, di un’umanità che vive come persa dentro un labirinto.
Due sono le coppie che vengono rappresentate nella prima lettura scenica che ha offerto al pubblico presente forti emozioni: i due fidanzati Eco (Jessica Granato) e Narciso (Tino Calabrò); i genitori di lui, Naro (Alessio Bonaffini ) e Nara (Margherita Smedile), i quali appaiono entrambi chiusi nel proprio punto di vista, in una convivenza matrimoniale a dir poco precaria.
Tutti sono diretti a Farso, un luogo che appare irraggiungibile e fantomatico, per motivi non resi espliciti ma che lasciano intendere agli spettatori che possa essere la meta finale, inseguita ossessivamente, in quanto simbolo di un paradiso perduto a cui aspirano i protagonisti.
Come in un incubo da cui non ci si riesce a svegliare, la strada percorsa sembra riportare sempre allo stesso punto, in un eterno ritorno di dinamiche che non lasciano molto spazio alla speranza.
Nel tragico viaggio a cui assistiamo, come dal finestrino di un trenino giocattolo che gira sempre sulla stessa pista, le visioni riportate ai nostri occhi e alle nostre orecchie rivelano la fragilità di sentimenti intrisi di cinismo, espressi in modo romantico, morboso ed arrogante attraverso silenzi, dialoghi brevi e taglienti, dolci, scioccanti ma anche ironici che contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa, carica di fatali possibilità. Tutto questo accompagnato dalle musiche e dai suoni di Simone Squillace, fuse in modo perfetto con l’impianto drammaturgico e con l’ottima interpretazione di tutti gli attori coinvolti.
Alla fine del viaggio, che continua sospeso nei pensieri del pubblico, restano sentimenti contrastanti e possibilità catartiche di superare il dolore e l’assurdo attraverso le riflessioni suscitate dall’opera che ci ricorda, inoltre, il valore fondamentale del mito, del suo parlare diretto al nostro inconscio e alla nostra memoria per metterci di fronte a ciò che temiamo, in modo da giungere a capire cosa davvero vogliamo quando saremo finalmente pronti a conoscerci e ad aprirci all’altro senza censure.